lunedì 4 febbraio 2008

Insicurezza

Nella metamorfosi dei modi di lavorare e produrre tra la gerarchia e la frammentazione del FORDISMO e la precarietà e la flessibilità del POSTFORDISMO, l'insicurezza diventa un carattere specifico dell’esistenza, un fenomeno che va molto oltre la nuova barbarie a cui si riferiva Benjamin negli anni ’30.

Viviamo in società in cui la violenza dai mille volti da troppo tempo si è come emancipata da qualsiasi necessità di giustificazione etica o ideologica, da qualsiasi bisogno di legittimità.
L’impasto paludoso di competitività globale e disintegrazione sociale con il quale si è costretti quotidianamente a fare i conti, favorisce la diffusione di fenomeni di delusione e di sfiducia; il caos, l’ANOMIA, la precarietà, spingono a dubitare degli ordinamenti e delle leggi, a mettere in discussione la saggezza dei padri, a rifuggire le responsabilità, a cercare rifugio nell’autorità e nei poteri forti: con la modernità entra formalmente a far parte della vita quotidiana la violenza «a prescindere», indipendente dalle ragioni, dagli obiettivi, dal rapporto tra rischio assunto e risultati attesi.

Si vive male per la violenza che c’è e per quella attesa, supposta, incombente. Si vive male per l’insicurezza sociale, quella che deriva dalla svalutazione e dalla precarizzazione del lavoro, dall’erosione del sistema di garanzie che va sotto il nome di stato sociale. Si tratta in questo caso di un processo che conosce un punto di approdo importante alla fine degli anni ’70, sotto la spinta del reaganismo e del thatcherismo. Sono gli anni in cui ritorna in auge l’idea che il lavoro, quello operaio in primo luogo, non è altro che uno dei tanti strumenti della produzione. Quando non serve, l’operaio va espulso dal ciclo produttivo; quando non regge più i ritmi, va sostituito, non molto diversamente da quanto accade con una qualunque macchina.

A rendere ancora più intricata la faccenda ci sono poi le questioni di identità, quelle che investono le modalità con le quali ci si riconosce stabilmente nel tempo con altri. Si tratta dell’insicurezza per certi versi più insidiosa e difficile da combattere, quella che è dentro ciascuna persona, che determina una condizione diffusa di sfiducia tormentosa, che ha a che fare con la percezione di se stessi nel mondo, con l’idea di cosa è importante e cosa invece non lo è.

I processi di modernizzazione, con particolare incidenza durante le fasi di transizione, scompaginano orizzonti, credenze, modi di vedere e interpretare il mondo; l’equazione «niente dura dunque niente ha valore» produce effetti devastanti sulla fiducia nel futuro, sulla voglia di partecipazione, sulle personalità. A essere messe in crisi, fino al limite della rottura, sono le identità conquistate, costruite, alle quali ci si è abituati.

Modelli relazionali sempre più volatili, evanescenti, difficili da mantenere a fronte della solidità, a tratti persino della rigidità, della fase precedente sono in modi diversi il prodotto di tali processi, così come l’iperattivismo spesso inconcludente che accompagna le vite di un numero sempre più consistente di persone.

da Vincenzo Moretti, Dizionario del Pensiero Organizzativo, Ediesse

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