giovedì 7 febbraio 2008

Decisione

Prendere una decisione è una faccenda assai più impegnativa, meno lineare e banale di quanto di norma non si sia portati a credere. Anche quando non ne siamo consapevoli, indipendentemente dal numero dei decisori (uno o molti) e dal contesto (famiglia, sport, lavoro, gioco) nel quale viene presa, essa ha alle spalle un processo decisionale che, quando viene svolto compiutamente, produce esiti non di rado sorprendenti.

Ne sanno qualcosa i protagonisti de La parola ai giurati, film capolavoro del 1957 diretto da Sidney Lumet (nel cast Henry Fonda, Lee J. Cobb, Ed Begley, E. G. Marshall, Jack Warden, Martin Balsam, John Fiedler, Jack Klugman).

Il processo decisionale attraverso il quale i 12 giurati in questione arrivano a definire l’innocenza del ragazzo accusato di aver ucciso il padre è davvero da manuale. Profetico. Anticipa i risultati della ricerca condotta da Garfinkel sul processo decisionale delle giurie (pubblicata nel 1967) che evidenzia come i giurati, invece che partire dalla catena danno (sua gravità), attribuzione della colpa, definizione della pena, siano indotti a decidere prima la pena e poi a individuare i fatti che la giustificano (come suggerisce WEICK (1997) “i fatti erano resi sensati retrospettivamente per sostenere la scelta del verdetto da parte dei giurati”).

Ancora a proposito del processo decisionale è molto interessante quanto afferma DRUCKER a proposito delle differenze esistenti tra occidente e Giappone in merito a ciò che significa “prendere una decisione”. In occidente – egli sottolinea – l’attenzione è rivolta alla possibilità-necessità di approcciare in maniera sistematica la “risposta alla domanda”. In Giappone, invece, l’elemento portante, l’essenza della decisione, è rappresentato dalla definizione della domanda (c’è bisogno di prendere una decisione? che cosa essa riguarda?); nella misura in cui la risposta alla domanda (ciò che per gli occidentali rappresenta la decisione) dipende dalla sua definizione, il processo decisionale è riferibile alla definizione di ciò che effettivamente riguarda la decisione piuttosto che a quale decisione dovrebbe essere presa.

A MARCH e Olsen si deve il modello decisionale del garbage can (cestino dei rifiuti), il tentativo di dimostrare che anche ciò che appare caotico e casuale possiede una struttura logica e risponde ad una precisa esigenza funzionale.
Diversamente dal modello della razionalità limitata, caratterizzati da incertezza, il modello garbage can è contraddistinto da ambiguità che, in quanto tale, non può essere ridotta attraverso l’aumento delle informazioni e delle conoscenze disponibili.

Ciò determina alcune conseguenze importanti:
i. gli attori non possono guidare razionalmente il processo decisionale, dato che gli scopi e le preferenze non possono essere definiti prima e indipendentemente dal processo stesso, ma prendono forma soltanto durante il corso dell’azione nella quale essi si inoltrano (il processo fornisce la base sulla quale gli attori recitano la propria parte);
ii. le attività e i compiti di ciascun attore sono necessariamente ambigui e indeterminati;
iii. le procedure e i modi di procedere sono fra loro mutuabili ed equivoci;
iv. i partecipanti e gli attori impegnati nel processo entrano ed escono dalla scena in relazione al livello d’interesse che li lega ai problemi, cosicché anche la partecipazione risulta essere fluida e incostante.

L’idea è insomma che anche nell’ambito del sistema sociale vengono depositate un numero ragguardevole di variabili (soluzioni potenziali, problemi latenti, attori rituali, opportunità etc.), che seguono il proprio corso in maniera indipendente fino a quando non intervengono fattori contingenti e temporali che favoriscono il loro incontro in un ordine di sequenza non necessariamente lineare e che rappresentano i criteri che regolano le scelte.

Le diverse variabili, più che essere collegate da un ordine di sequenza (si parte da una criticità per arrivare, attraverso la definizione di una specifica procedura da parte degli attori coinvolti nel processo decisionale, a scoprire una soluzione pertinente), si incontrano con una modalità che assomiglia molto a quella del cestino nel quale si trovano ad essere mescolate specie diverse di rifiuti prive di legami tra di loro.

In particolare MARCH e Olsen individuano tre principali processi di sequenza decisionale:
i. nel primo la scelta finale adottata risponde a un problema, non importa se stabilito in partenza o sostituito nel corso del procedimento. Si tratta di un processo statisticamente poco frequente dato che sono poche le decisioni pubbliche che possono essere ricollegate a problemi chiaramente identificabili;

ii. nel secondo la scelta non risponde affatto, o non risponde più, a un problema, che può essere stato perso di vista nel corso del procedimento oppure non essere stato mai evocato. In questo processo, molto più frequente del primo, la scelta si è compiuta proprio grazie al fatto di avere scartato qualunque problema;

iii. nel terzo il problema è scartato, non vi è stata scelta finale, il processo si è arrestato per abbandono.

Si consideri un campo rotondo, inclinato e con molte reti su cui giocano alcuni individui. Molte persone diverse (ma non tutti) possono unirsi al gioco (o abbandonarlo) in diversi momenti. Alcuni possono lanciare palloni nel campo o toglierli. Mentre sono in gioco, alcuni cercano di calciare qualunque palla capiti loro a tiro in direzione delle reti che piacciono loro e lontano da quelle che vogliono evitare.
March e Olsen, 1976

da vincenzo moretti, dizionario del pensiero organzzativo, ediesse

Nessun commento: