martedì 12 febbraio 2008

La società liquida

Lavoro di gruppo sulla relazione di Vincenzo Moretti
sintesi a cura di Marianella Casali


Nell'immaginario dominante , la narrazione collettiva di carattere postideologico che si coglie è quella che ritrae la società in cui il conflitto sembra non avere più caratteri spiccatamente identitari o emancipativi che riguardano sia l'uso e la distribuzione delle risorse , le politiche di protezione e di stato sociale -
Il conflitto tra capitale e lavoro si moltiplica e si confonde anche su terreni diversi, come il territorio, le politiche di coesione sociale e di sicurezza, le politiche familiari, mentre i soggetti sociali si frammentano in individui o in gruppi di individui, in corporazioni, che sembrano non interessare più tanto e solo le classi sociali, ma piuttosto i generi, le generazioni, i lavoratori subordinati e gli atipici, i flessibili, ecc.
Ciò, in parte, determina un'involuzione dei modelli sociali esistenti, senza più certezze di tenuta, in cui in un processo di individualizzazione e di atomizzazione la rappresentanza del lavoro, benchè centrale, non è più sufficiente a rappresentare condizioni sociali definite. Inoltre, il lavoro, in sé non garantisce più l'esclusione dalle soglie di povertà e di vulnerabilità sociale, che possono diventare fenomeni di slittamento comuni e abbastanza diffusi per molte classi sociali, con carattere di intergenerazionalità, con similitudini e differenze tra i sessi.
Le grandi reti pubbliche di servizi collettivi hanno registrato vistose interruzioni, mentre il processo di globalizzazione senza regole , d'internazionalizzazione senza confini e di delocalizzazione progressiva hanno segnato vere e proprie cadute non solo delle protezioni nazionali e di Stato, ma anche dei legami comunitari e di coesione sociale.
Se negli ultimi 25 anni sono lievitati in maniera significativa la durata e la profondità delle crisi economiche e l'instabilità del lavoro sono al contempo aumentate percezioni di insicurezza collettiva e individuale che hanno scaricato sul lavoro e sulla condizione sociale e di cittadinanza una condizione di frantumazione delle connessioni che legano comunità locali, autonomie soggettive e responsabilità pubbliche. La condizione di lavoro, anzitutto, ha registrato un vistoso sfaldamento tra livello di sicurezza e protezione associato al reddito, potenziata dall'asimmetria esistente tra fasi lavorative e bisogni e aspirazioni che tendono sempre più a divaricarsi. Ciò aumenta una pericolosa percezione di evoluzione della rappresentanza sociale, tale a volte da indurre a una sorta di superamento delle funzioni stesse degli organismi intermedi di rappresentanza e del Sindacato stesso.
La battaglia è culturale, ovvero quella di rompere il pregiudizio secondo cui non è più auspicabile , una rappresentanza generale del lavoro, dei lavoratori e delle loro condizioni di vita.
Nelle condizioni attuali non è automatico né tantomeno ovvio rappresentare la società frammentata con l'obiettivo di leggere, interpretare, porre domanda e indicare strategie di risposte coerenti alla società frammentata che abbiamo di fronte, unificando interessi apparentemente diversi, in una condizione di trasparenza, equità e legalità, nell'esercizio collettivo e universale della cittadinanza.
La sfida attuale anche in termini di nuova coesione sociale è quella di salvaguardare conquiste di garanzie del lavoro, la promozione e la valorizzazione delle soggettività così come la cura delle identità collettive e dei diritti , proprio nella seconda fase della globalizzazione in cui assistiamo a un peggioramento generalizzato delle tutele universalistiche.

domenica 10 febbraio 2008

sabato 9 febbraio 2008

Lavoro precario

Nell’attuale fase di sviluppo delle società industrializzate lavoro e precarietà vengono associati sempre più di frequente. Nel corso degli ultimi 25 anni sono lievitati in maniera significativa la durata e la profondità delle crisi economiche, l’instabilità del lavoro, l’insicurezza dei lavoratori, la frustrazione associata alla perdita di STATUS. Si determina una similitudine perversa tra sconfitta sul mercato e perdita della stima di sé; l’aumento del senso di colpa va di pari passo con la perdita dell’autonomia, della dignità, del valore del lavoro.

Ancora nel 2004 un rapporto dell’International Labour Organization (ILO) ha evidenziato come il lavoro non può essere valutato soltanto sulla base del tasso di occupazione, del livello di reddito, della flessibilità. Gli indicatori qualitativi come per l’appunto la stabilità e la sicurezza dell’impiego, i diritti e le tutele normative, scrivono gli autori, sono indispensabili per definire in maniera più compiuta il livello di benessere dei lavoratori dato che esso non dipende solo dalla possibilità di poter disporre di un reddito dignitoso ma anche, soprattutto, dal livello di sicurezza e di protezione associato al reddito.

Nel suddetto rapporto vengono individuati sette indicatori che determinano l’indice di sicurezza economica (Economic Security Index - ESI): l’occupabilità, il lavoro regolare e non soggetto a licenziamenti arbitrari, la salvaguardia della salute e la tutela in campo infortunistico, la crescita professionale, l’acquisizione di nuove competenze e conoscenze, la protezione del potere d’acquisto dei salari, la presenza di soggetti forti di rappresentanza.

I 90 paesi analizzati sono stati invece suddivisi in quattro classi: quelli d’avanguardia, perché caratterizzati da buone politiche, buone istituzioni e buoni risultati; quelli pragmatici, perché presentano buoni risultati nonostante politiche e istituzioni non particolarmente attive; quelli convenzionali, nei quali a buone politiche e istituzioni non corrispondono buoni risultati; quelli dove c’è molto da fare, perché a scarsi risultati si associano politiche e istituzioni deboli.

I risultati?
I «quasi poveri» sono decisamente in aumento, così come la precarietà del lavoro e il livello di stress dei lavoratori. Il tasso di scolarità e formazione si traduce in una diminuzione del tasso di benessere, fino a provocare quella che la ricerca ILO definisce «effetto di frustrazione legata allo STATUS», in tutti i casi nei quali le persone svolgono mansioni inferiori al livello delle loro capacità e qualifiche.

Detto in altri termini, è molto diffusa l’insoddisfazione conseguente all’asimmetria esistente tra il lavoro che concretamente si fa e i bisogni e le aspirazioni, in particolare tra i lavoratori maggiormente scolarizzati.

da Vincenzo Moretti, Dizionario del Pensiero Organizzativo, Ediesse

venerdì 8 febbraio 2008

Il nuovo modello di polizia locale

Lavoro di gruppo sulla relazione di Rossella Selmini
sintesi a cura del Coordinamento Provinciale CGIL Polizia Locale Reggio Emilia

La Legge regionale delle Emilia Romagna 24/2003 ha rappresentato un nuovo "modello" di polizia locale, che, da una parte ha recepito le esperienze e le sperimentazioni che la Polizia Municipale ha sviluppato nell'ambito delle politiche locali di sicurezza urbana promosse dagli enti locali emilano-romagnoli, a partire dalla metà degli anni '90 e, dall’altra ha recepito gli sviluppi normativi che hanno riguardato l'ambito della polizia amministrativa (1) e che hanno visto un progressivo trasferimento di funzioni amministrative da parte dello stato agli Enti territoriali.
La legge regionale promana direttamente dalla legge 3/2001 (Riforma del Titolo V della Costituzione) all'art. 17 che afferma la potestà legislativa esclusiva delle Regioni in materia di Polizia Amministrativa Locale lasciando allo Stato la potestà normativa esclusiva in materia di ordine pubblico e pubblica sicurezza (2) .
Lo stesso titolo della legge "Disciplina della Polizia Amministrativa Locale e promozione di un sistema integrato di sicurezza" esprime la volontà di legare in maniera essenziale il tema della sicurezza urbana con quello della Polizia Locale e di sottolineare la complementarietà e integrazione delle materie ma, contemporaneamente, il fatto che l'intervento di polizia non esaurisce l'intervento nel campo della sicurezza urbana.
L’apporto alle questioni inerenti la sicurezza che la polizia locale può mettere in campo non può, infatti, essere unilaterale o esaustivo di se stesso, non può essere rappresentato in maniera astratta o estemporanea o dettato dall’emergenza politica del momento. Affinché risulti efficace, deve essere legato ad un modello di sicurezza basato sul concetto di prossimità cui concorrono anche agenzie pubbliche e private che, attraverso protocolli, moduli organizzativi, strumenti, approcci innovativi promossi sul territorio, costituiscono un sistema integrato messo in rete.
Sul tema della sicurezza urbana, in particolare, negli ultimi 10 anni la Polizia Municipale ha dovuto adeguare continuamente il proprio intervento parallelamente alla crescita del ruolo dei Sindaci su questo terreno, anche a seguito della elezione diretta del Sindaco e del processo di valorizzazione degli Enti Locali.
In forza della nuova potestà legislativa esclusiva in materia di polizia amministrativa locale la Regione ha avuto la possibilità di conferire alla materia della Polizia Amministrativa Locale le caratterizzazioni più confacenti al contesto politico, sociale, economico e culturale del contesto regionale.
Elemento peculiare di un modello di Polizia è senza dubbio il modello organizzativo. In questo senso la legge regionale pur incentrando l'attività della Polizia Amministrativa Locale in capo ai Comuni interviene a dettare norme per garantire, in maniera uniforme su tutto il territorio Regionale, standard minimi qualitativi e quantitativi del servizio di Polizia Locale.
Si tratta, come si evince da diversi documenti ufficiali della regione Emilia Romagna, di un sistema "a rete" di corpi di Polizia Locale. Un modello quindi di Polizia Locale fortemente incentrato sui territori ma in grado, nel suo complesso, di assolvere in maniera omogenea alle funzioni assegnate.
L'omogeneità viene garantita dalla Regione attraverso l'emanazione di raccomandazioni tecniche in ordine al reclutamento del personale, alla dotazione di mezzi e strumentazioni (3), all' organizzazione delle attività, alle modalità di collaborazione con il volontariato ecc., materie su cui interviene la potestà regolamentare dei Comuni attraverso la redazione dei Regolamenti dei Corpi e dei servizi di Polizia Municipale.
Altro elemento costituivo di un modello di polizia è l'assetto funzionale.
Da una lettura organica della legge 24/2003 si evince chiaramente che il modello di polizia sotteso è quello di una "polizia di servizio", fortemente radicata sul territorio e orientata alla soluzione dei problemi. La legge afferma che i corpi di Polizia Municipale sono costituiti per garantire l'ordinato svolgimento di attività che, anche quando riguardano compiti più "tradizionali" assumono connotazioni innovative in questo nuovo contesto legislativo:
• tutela della mobilità e sicurezza stradale
• tutela del consumatore comprensiva delle funzioni di polizia commerciale con particolare riferimento alle forme di commercio irregolare
• tutela della qualità urbana e rurale
• tutela della vivibilità e sicurezza urbana comprensiva dell'attività di polizia giudiziaria
Nell'economia complessiva della legge questi compiti si configurano, per così dire come “standard minimi" che tutti i corpi di Polizia devono garantire mentre si rinvia all'ambito degli accordi tra Comuni e Autorità Provinciali di Pubblica Sicurezza il completamento delle funzioni.
Si fa riferimento evidentemente all'esperienza dei protocolli e contratti di quartiere che, avendo l'obiettivo di sviluppare politiche locali di sicurezza di carattere integrato e partenariale possono prevedere particolari impegni per la Polizia Municipale o livelli di coordinamento o partecipazione ad attività più strettamente legate all'Ordine Pubblico.
La legge afferma infatti che si tratta di compiti che attengono al controllo integrato del territorio secondo i principi di prossimità e di coinvolgimento dei cittadini, la gestione di fenomeni complessi come la violenza sui minori, la prostituzione, le tossicodipendenze, la gestione di sistemi informativi integrati.
Anche su questo punto la legge valorizza l'esperienza sviluppata da alcuni Comuni nell'ambito dei protocolli/ Contratti di Sicurezza dandole una base legislativa.
In definitiva la legge regionale delinea un modello di polizia locale in grado di impegnarsi in maniera modulare e flessibile, e al di là di funzioni minime, in base alle specificità territoriali.
Significativo è il richiamo al tema dei moduli organizzativi ispirati ai principi di prossimità in quanto evoca un modello di polizia con un ruolo attivo nell'individuazione dei problemi di un territorio e nella definizione di strategie preventive integrate nel senso di una polizia capace di attivare altre risorse, formali e informali, interne ed esterne all'Ente, (altre polizie, cittadini, volontari, altri servizi) con cui lavorare per la soluzione dei problemi.
Oltre a definire la "filosofia" cui deve ispirarsi il lavoro della Polizia Locale la legge individua anche due soggetti, la vigilanza privata e il volontariato (4), come soggetti che possono apportare un valore aggiunto al lavoro di polizia per il presidio del territorio.
E' chiaro che il modello e il ruolo della Polizia Locale non può essere slegato, sui temi della sicurezza urbana, da quello che è il modello delle polizie nazionali a valenza generale e il possibile livello di coordinamento tra Polizia Locale e Polizie Nazionali.
La Polizia (statale e locale) deve quindi, al contempo, fronteggiare la complessità di fenomeni globali e rispondere alle istanze locali di sicurezza dei cittadini che si vivono a livello territoriale l'impatto di tali fenomeni. Da un lato i grandi traffici e i mercati irregolari (droga, prostituzione, immigrazione clandestina ecc.) dall'altro aspetti microsicuritari (piccola delinquenza, degrado sociale e fisico del territorio dovuto alla presenza di questi fenomeni, insicurezza dei cittadini).
Per il sistema delle polizie si tratta quindi di integrare il livello e l'ambito di intervento in modo da poter rispondere ad entrambi i livelli di problematicità.
La Polizia Locale, così come si configura nell'ambito della Legge Regionale, può efficacemente rispondere ad una parte dei bisogni di sicurezza legati al microambiente attraverso l'approccio di prossimità e l'integrazione con altri soggetti di cui si è già detto.
Nella realtà reggiana, gli approcci descritti, hanno investito maggiormente i servizi associati di polizia municipale della provincia, a differenza della città che, a tutt’oggi, sembra essere assolutamente impermeabile a questa trasformazione. In provincia ad esempio, nell’approvazione dei Regolamenti dei Corpi Unici o Associati sono state recepite pienamente tutte le indicazioni previste dalla legge Regionale.
Il percorso per la piena attuazione della legge regionale, è ancora lungo ed il Coordinamento CGIL Polizia Locale sta operando in tal senso collaborando fattivamente con tutti i territori provinciali affinché la dimensione operativa e organizzativa della Polizia Locale sia il più uniforme e omogeneo possibile ed in linea con quanto prescritto dalla Regione.

NOTE
1. Il concetto di Polizia Amministrativa non deve essere interpretato in senso giuridico stretto (polizia del diritto amministrativo) ma in senso generale, inteso cioè come polizia dell’amministrazione, della gestione della quotidianità. Si tratta di funzioni dedicate alla tutela del rispetto ordinamentale per questioni di più pratica consistenza, di più minuziosa individuazione e solitamente di minore drammaticità sociale, ciò nonostante di più immediato contatto.

2. L'Ordine Pubblico è quell'insieme di norme fondamentali dell'ordinamento giuridico riguardante i principi etici e politici la cui osservanza ed attuazione è ritenuta indispensabile per l'esistenza di tale ordinamento (v.L.Paladin, Ordine Pubblico, in N.ssimo Dig., XII). Tale parte del diritto, costituita sia dai principi generali e fondamentali dell'ordinamento che da concrete norme giuridiche, riguarda le norme costituzionali dello Stato, la posizione dei suoi organi supremi, la personalità e la libertà dei cittadini, l'ordinamento del matrimonio e della famiglia, la capacità delle persone fisiche e giuridiche, i rapporti tra le classi sociali. Sotto il profilo dei compiti istituzionali degli addetti alle funzioni di polizia, con la locuzione ordine pubblico s'intende genericamente un complesso di servizi, tecniche, addestramento e così via, inerenti al mantenimento di condizioni di ordine (e pertanto, fondamentalmente di prevenzione e/o repressione di tumulti) in circostanze in cui si prevede un intenso afflusso di persone (tipicamente: manifestazioni politiche o sindacali, partite di calcio, spettacoli pubblici e simili). Cosa diversa rappresenta invece il concetto di Pubblica Sicurezza (P.S.). La pubblica sicurezza riguarda tanto le attività di polizia, volte ad assicurare la "sicurezza" attraverso il rispetto delle norme di legge, quanto quelle attività istituzionali comunque finalizzate a prevenire che la collettività possa patire danni da eventi fortuiti e accidentali, infortuni e disastri naturali, climatici, o di qualunque altro genere, o comunque a prevenirne l'aggravio del danno attraverso l'organizzazione di forme di prevenzione e di soccorso. Nell’ordinamento italiano riveste la qualifica di Ufficiali e Agenti di P.S. la Polizia di Stato, rivestono invece solo la qualifica di Agenti di P.S. i Carabinieri, la Guardia di Finanza, la Polizia Penitenziaria, il Corpo Forestale dello Stato, la Polizia Locale (Municipale e Provinciale). Pubblica Sicurezza e Sicurezza Pubblica sono due concetti diversi, il primo è un concetto giuridico regolato principalmente dal T.U.L.P.S. mentre , il secondo è un concetto di natura sociologica che afferisce al problema generale della sicurezza e della civile ed armoniosa convivenza.

3. Negli articoli seguenti della Proposta di regolamento base per i Corpi Intercomunali di Polizia municipale delle Unioni di Comuni e delle Comunità montane dell’Emilia-Romagna e per i Corpi di Polizia Municipale, (alla cui elaborazione ha fattivamente contribuito anche la CGIL) si evince quali sono e con quale finalità devono essere usate le dotazioni di autotutela. Si ritiene che su questo tema non sia utile assumere posizioni “politiche” ma rimettersi alle norme regionali e nazionali in tal senso. n.d.a.
Art. 53
Strumenti di autotutela
1. Gli appartenenti al Corpo possono essere dotati di strumenti di autotutela che non siano classificati come arma.
2. Per strumenti di autotutela, che hanno scopi e natura esclusivamente difensiva, si intendono, lo spray irritante e il bastone estensibile. Con riferimento a quest'ultimo, il porto dello stesso è disposto dal Comandante per specifici servizi che lo facciano ritenere necessario.
3. L'acquisto e l'assegnazione di detti strumenti deve risultare da apposito registro di carico e scarico sul quale risultino, con riferimento agli spray, le sostituzioni delle parti soggette a consumo o deterioramento.
Art. 54
Formazione ed addestramento all'uso
1. L'assegnazione degli strumenti di autotutela di cui all'art. 53 può avvenire solo ed esclusivamente dopo l'effettuazione di un apposito corso che preveda, oltre all'addestramento all'uso, anche una adeguata formazione relativamente ai presupposti normativi che ne legittimino l'eventuale utilizzo.
2. La formazione e l'addestramento devono avere una durata di almeno 8 ore complessive e devono prevedere, al loro termine, il superamento di una specifica verifica.
3. Il comandante dà atto, nel provvedimento di assegnazione, dell'avvenuta formazione.
Art. 55
Caratteristiche degli strumenti di autotutela
1. Lo spray antiaggressione consiste in un dispositivo, dotato di bomboletta ricaricabile, contendente un prodotto le cui caratteristiche di composizione devono essere le stesse dei prodotti di identica tipologia in libera vendita ed il cui effetto, non lesivo rispetto all'uso su persone o animali, sia garantito da apposita documentazione attestata dal produttore.
Il dispositivo deve essere fornito con la documentazione tecnica, in italiano, che riporti: lìindicazione delle sostanze contenute e del loro quantitativo, le necessarie istruzioni per l'utilizzo, l'indicazione degli interventi da effettuare per far cessare gli effetti irritanti dopo il suo uso, nonché gli eventuali effetti collaterali riscontrabili.
La quantità di sostanza contenuta nella bomboletta deve essere facilmente verificabile da ciascun assegnatario e così dicasi pure per la data di scadenza che deve essere verificabile direttamente ed agevolmente.
2. Il bastone estensibile consiste in un dispositivo, di colore bianco, composto da elementi telescopici che in condizione di non utilizzo rimangono chiusi l'uno all'interno dell'altro. Lo strumento deve essere strutturato in modo che non si verifichino aperture accidentali. Ogni strumento dovrà recare un numero identificativo e l'indicazione dell'ente proprietario.
Il dispositivo, in quanto strumento di autodifesa, non può essere aperto, nel corso dello svolgimento dei servizi, se non in condizioni che ne legittimino un eventuale uso per finalità esclusivamente difensive.

4. Da questa nota si evince quanto sia in realtà strumentale ed inutile, nella nostra regione, tutto il baccano intorno al tema delle c.d. “ronde”. All’art. 8 della L.R. 24/2003 infatti, e successivamente con la direttiva applicativa 279/2005, la Regione ha voluto normare l’utilizzo del volontariato all’interno delle politiche integrate di sicurezza. Nello specifico Al comma 1 dell’art. 8 la L.R. n. 24 indica espressamente le finalità in base alle quali utilizzare forme di volontariato; esse sono volte a realizzare una presenza attiva sul territorio con il fine di promuovere l’educazione alla convivenza e il rispetto della legalità, la mediazione dei conflitti e il dialogo tra le persone, l’integrazione e l’inclusione sociale. Tale attività si configura, inoltre, come un servizio pubblico volontario aggiuntivo e non sostitutivo di quello ordinariamente svolto dalle strutture di Polizia Locale.
Lo spirito della presenza del volontario deve pertanto essere improntato ad una figura amica e rassicurante che, mediante una attenta capacità di ascolto della comunità presso la quale è chiamato ad operare, contribuisce allo sviluppo: delle azioni di prevenzione; delle attività di informazione rivolte ai cittadini; delle attività di educazione e sicurezza stradale;
di una maggiore presenza e visibilità del Comune nello spazio pubblico urbano;
del collegamento fra i cittadini, le polizie locali e gli altri servizi locali;
del senso civico della cittadinanza;
di un maggior rispetto delle regole che le comunità si danno per assicurare a tutti una civile e serena convivenza.

Nello svolgimento di tale attività il volontario acquisisce capacità di osservazione del territorio e di selezione delle informazioni che possono risultare utili per migliorare la qualità delle relazioni e delle attività nello spazio pubblico urbano:
delle azioni di prevenzione; delle attività di informazione rivolte ai cittadini; delle attività di educazione e sicurezza stradale;
di una maggiore presenza e visibilità del Comune nello spazio pubblico urbano;
del collegamento fra i cittadini, le polizie locali e gli altri servizi locali;
del senso civico della cittadinanza;
di un maggior rispetto delle regole che le comunità si danno per assicurare a tutti una civile e serena convivenza.

Nello svolgimento di tale attività il volontario acquisisce capacità di osservazione del territorio e di selezione delle informazioni che possono risultare utili per migliorare la qualità delle relazioni e delle attività nello spazio pubblico urbano.

giovedì 7 febbraio 2008

Decisione

Prendere una decisione è una faccenda assai più impegnativa, meno lineare e banale di quanto di norma non si sia portati a credere. Anche quando non ne siamo consapevoli, indipendentemente dal numero dei decisori (uno o molti) e dal contesto (famiglia, sport, lavoro, gioco) nel quale viene presa, essa ha alle spalle un processo decisionale che, quando viene svolto compiutamente, produce esiti non di rado sorprendenti.

Ne sanno qualcosa i protagonisti de La parola ai giurati, film capolavoro del 1957 diretto da Sidney Lumet (nel cast Henry Fonda, Lee J. Cobb, Ed Begley, E. G. Marshall, Jack Warden, Martin Balsam, John Fiedler, Jack Klugman).

Il processo decisionale attraverso il quale i 12 giurati in questione arrivano a definire l’innocenza del ragazzo accusato di aver ucciso il padre è davvero da manuale. Profetico. Anticipa i risultati della ricerca condotta da Garfinkel sul processo decisionale delle giurie (pubblicata nel 1967) che evidenzia come i giurati, invece che partire dalla catena danno (sua gravità), attribuzione della colpa, definizione della pena, siano indotti a decidere prima la pena e poi a individuare i fatti che la giustificano (come suggerisce WEICK (1997) “i fatti erano resi sensati retrospettivamente per sostenere la scelta del verdetto da parte dei giurati”).

Ancora a proposito del processo decisionale è molto interessante quanto afferma DRUCKER a proposito delle differenze esistenti tra occidente e Giappone in merito a ciò che significa “prendere una decisione”. In occidente – egli sottolinea – l’attenzione è rivolta alla possibilità-necessità di approcciare in maniera sistematica la “risposta alla domanda”. In Giappone, invece, l’elemento portante, l’essenza della decisione, è rappresentato dalla definizione della domanda (c’è bisogno di prendere una decisione? che cosa essa riguarda?); nella misura in cui la risposta alla domanda (ciò che per gli occidentali rappresenta la decisione) dipende dalla sua definizione, il processo decisionale è riferibile alla definizione di ciò che effettivamente riguarda la decisione piuttosto che a quale decisione dovrebbe essere presa.

A MARCH e Olsen si deve il modello decisionale del garbage can (cestino dei rifiuti), il tentativo di dimostrare che anche ciò che appare caotico e casuale possiede una struttura logica e risponde ad una precisa esigenza funzionale.
Diversamente dal modello della razionalità limitata, caratterizzati da incertezza, il modello garbage can è contraddistinto da ambiguità che, in quanto tale, non può essere ridotta attraverso l’aumento delle informazioni e delle conoscenze disponibili.

Ciò determina alcune conseguenze importanti:
i. gli attori non possono guidare razionalmente il processo decisionale, dato che gli scopi e le preferenze non possono essere definiti prima e indipendentemente dal processo stesso, ma prendono forma soltanto durante il corso dell’azione nella quale essi si inoltrano (il processo fornisce la base sulla quale gli attori recitano la propria parte);
ii. le attività e i compiti di ciascun attore sono necessariamente ambigui e indeterminati;
iii. le procedure e i modi di procedere sono fra loro mutuabili ed equivoci;
iv. i partecipanti e gli attori impegnati nel processo entrano ed escono dalla scena in relazione al livello d’interesse che li lega ai problemi, cosicché anche la partecipazione risulta essere fluida e incostante.

L’idea è insomma che anche nell’ambito del sistema sociale vengono depositate un numero ragguardevole di variabili (soluzioni potenziali, problemi latenti, attori rituali, opportunità etc.), che seguono il proprio corso in maniera indipendente fino a quando non intervengono fattori contingenti e temporali che favoriscono il loro incontro in un ordine di sequenza non necessariamente lineare e che rappresentano i criteri che regolano le scelte.

Le diverse variabili, più che essere collegate da un ordine di sequenza (si parte da una criticità per arrivare, attraverso la definizione di una specifica procedura da parte degli attori coinvolti nel processo decisionale, a scoprire una soluzione pertinente), si incontrano con una modalità che assomiglia molto a quella del cestino nel quale si trovano ad essere mescolate specie diverse di rifiuti prive di legami tra di loro.

In particolare MARCH e Olsen individuano tre principali processi di sequenza decisionale:
i. nel primo la scelta finale adottata risponde a un problema, non importa se stabilito in partenza o sostituito nel corso del procedimento. Si tratta di un processo statisticamente poco frequente dato che sono poche le decisioni pubbliche che possono essere ricollegate a problemi chiaramente identificabili;

ii. nel secondo la scelta non risponde affatto, o non risponde più, a un problema, che può essere stato perso di vista nel corso del procedimento oppure non essere stato mai evocato. In questo processo, molto più frequente del primo, la scelta si è compiuta proprio grazie al fatto di avere scartato qualunque problema;

iii. nel terzo il problema è scartato, non vi è stata scelta finale, il processo si è arrestato per abbandono.

Si consideri un campo rotondo, inclinato e con molte reti su cui giocano alcuni individui. Molte persone diverse (ma non tutti) possono unirsi al gioco (o abbandonarlo) in diversi momenti. Alcuni possono lanciare palloni nel campo o toglierli. Mentre sono in gioco, alcuni cercano di calciare qualunque palla capiti loro a tiro in direzione delle reti che piacciono loro e lontano da quelle che vogliono evitare.
March e Olsen, 1976

da vincenzo moretti, dizionario del pensiero organzzativo, ediesse

mercoledì 6 febbraio 2008

Bisogni

Con la sua teoria dei bisogni MASLOW teorizza l’esistenza di una precisa gerarchia dei bisogni individuali e sociali nell’ambito della quale la soddisfazione dei bisogni di livello inferiore è la condizione affinché si manifestino quelli di livello immediatamente superiore.

La sua scala dei bisogni è composta da cinque livelli o gradini:
i. i bisogni fisiologici (respirare, bere, mangiare, riposare, muoversi ecc.);
ii. i bisogni di sicurezza, fisica ed emotiva (libertà da pericoli, minacce, difficoltà economiche, malattia ecc.);
iii. i bisogni di appartenenza e di attività sociale (relazioni, riconoscimento come componente del gruppo);
iv. i bisogni di STATUS e di autostima (riconoscimento da parte degli altri, rispetto di sé);
v. il bisogno di autorealizzazione (il concetto di autorealizzazione comprende la soddisfazione di ogni aspirazione/esigenza umana a livello sia di individuo che di organizzazione, come di ogni società e specie; se soddisfatto, produce un senso di pienezza e di felicità).

da Vincenzo Moretti, Dizionario del Pensiero Organizzativo, Ediesse

martedì 5 febbraio 2008

Ambiguità e Incertezza

Le progettazioni organizzative che pongono rimedio a un problema di mancanza di chiarezza [ambiguità] sono diverse da quelle che pongono rimedio a un problema di mancanza di dati [incertezza] .

Daft e Lengel 1986

lunedì 4 febbraio 2008

Insicurezza

Nella metamorfosi dei modi di lavorare e produrre tra la gerarchia e la frammentazione del FORDISMO e la precarietà e la flessibilità del POSTFORDISMO, l'insicurezza diventa un carattere specifico dell’esistenza, un fenomeno che va molto oltre la nuova barbarie a cui si riferiva Benjamin negli anni ’30.

Viviamo in società in cui la violenza dai mille volti da troppo tempo si è come emancipata da qualsiasi necessità di giustificazione etica o ideologica, da qualsiasi bisogno di legittimità.
L’impasto paludoso di competitività globale e disintegrazione sociale con il quale si è costretti quotidianamente a fare i conti, favorisce la diffusione di fenomeni di delusione e di sfiducia; il caos, l’ANOMIA, la precarietà, spingono a dubitare degli ordinamenti e delle leggi, a mettere in discussione la saggezza dei padri, a rifuggire le responsabilità, a cercare rifugio nell’autorità e nei poteri forti: con la modernità entra formalmente a far parte della vita quotidiana la violenza «a prescindere», indipendente dalle ragioni, dagli obiettivi, dal rapporto tra rischio assunto e risultati attesi.

Si vive male per la violenza che c’è e per quella attesa, supposta, incombente. Si vive male per l’insicurezza sociale, quella che deriva dalla svalutazione e dalla precarizzazione del lavoro, dall’erosione del sistema di garanzie che va sotto il nome di stato sociale. Si tratta in questo caso di un processo che conosce un punto di approdo importante alla fine degli anni ’70, sotto la spinta del reaganismo e del thatcherismo. Sono gli anni in cui ritorna in auge l’idea che il lavoro, quello operaio in primo luogo, non è altro che uno dei tanti strumenti della produzione. Quando non serve, l’operaio va espulso dal ciclo produttivo; quando non regge più i ritmi, va sostituito, non molto diversamente da quanto accade con una qualunque macchina.

A rendere ancora più intricata la faccenda ci sono poi le questioni di identità, quelle che investono le modalità con le quali ci si riconosce stabilmente nel tempo con altri. Si tratta dell’insicurezza per certi versi più insidiosa e difficile da combattere, quella che è dentro ciascuna persona, che determina una condizione diffusa di sfiducia tormentosa, che ha a che fare con la percezione di se stessi nel mondo, con l’idea di cosa è importante e cosa invece non lo è.

I processi di modernizzazione, con particolare incidenza durante le fasi di transizione, scompaginano orizzonti, credenze, modi di vedere e interpretare il mondo; l’equazione «niente dura dunque niente ha valore» produce effetti devastanti sulla fiducia nel futuro, sulla voglia di partecipazione, sulle personalità. A essere messe in crisi, fino al limite della rottura, sono le identità conquistate, costruite, alle quali ci si è abituati.

Modelli relazionali sempre più volatili, evanescenti, difficili da mantenere a fronte della solidità, a tratti persino della rigidità, della fase precedente sono in modi diversi il prodotto di tali processi, così come l’iperattivismo spesso inconcludente che accompagna le vite di un numero sempre più consistente di persone.

da Vincenzo Moretti, Dizionario del Pensiero Organizzativo, Ediesse

domenica 3 febbraio 2008

Rispetto

C’è reciprocità nel termine riconoscimento. Fu il filosofo Fichte il primo ad inserire la parola riconoscimento nel linguaggio giuridico, esplorando come le leggi possano essere strutturate in modo che la costituzione riconosca le esigenze di stranieri e migranti. Rousseau aveva ampliato il dibattito in senso democratico, vedendo nel riconoscimento reciproco un problema di comportamento sociale, così come di diritto. Negli scritti di John Rawls, riconoscimento significa rispetto per le esigenze di chi è diverso da noi; negli scritti di Jurgen Habermas, riconoscimento significa rispetto per coloro che sono portati a dissentire in base ai propri interessi.
da Rispetto, Il Mulino, pag. 65

Alla IBM nel 1965 esistevano 23 anelli gerarchici che separavano il vertice dalla base; nel 2000 soltanto 7.
Nel 1965 gli investitori tradizionali tenevano le azioni in media per 46 mesi; nel 2000 per 8 mesi.
da Rispetto, Il Mulino, pag. 181 e 182

Il rispetto è un modo di esprimersi. Vale a dire, trattare gli altri con rispetto non è una cosa automatica, anche con la migliore volontà del mondo; portare rispetto significa trovare le parole e i gesti che lo rendano convincente.
da Rispetto, Il Mulino, pag. 207

La questione è come aprirsi all’esterno mantenendo un solido senso sé.
da Rispetto, Il Mulino, pag. 225

Lévi-Strauss chiama “meteci” (métics) coloro che praticano il bricolage, trasformando l’accezione classica del termine greco per indicare gli stranieri nell’idea di gente che può ricordare da dove proviene anche sapendo di non poterci più vivere; questo genere di viaggio egli lo chiama “meticciato” (métissage), un percorso lungo il quale c’è un cambiamento ma non la perdita della memoria. Il viaggiatore, quindi, conserva un certo grado di sicurezza e fiducia in sé mentre fa fronte, e accetta, la diversità e l’incoerenza della nuova situazione.
da Richard Sennett, Rispetto, Il Mulino, pag. 227

Rom e Nomadi

Euronote
Inserto n. 48
Libro Verde lavoro
Rom e nomadi nell'Ue

Il popolo che nessuno vuole

sabato 2 febbraio 2008

Incertezza

Tutti i processi di modernizzazione sono in realtà processi che spaccano gli orizzonti stabili. Il problema della sociologia moderna è per l’appunto quello di capire come fa una società a stare insieme una volta che vengano meno le legature tradizionali, una volta che vengano meno le assegnazioni di identità stabili.

Una questione importante è "la conversione continua di un mondo non nostro in una realtà condivisa". Questo vale nella scienza, nell'etica, nella politica, nei linguaggi dell'arte, e vale quindi per quanto attiene ai nostri modi di fare teorie su "ciò che vi è", sui nostri modi di fare teorie su "ciò che vale", sui nostri modi di fare e rifare teorie su "chi noi siamo".

Uno dei registri fondamentali delle nostre vite è quello su "che cosa è importante", cioè quello sulle gerarchie di importanza: l'importanza è connessa semplicemente all'esperienza di perdita, reale o virtuale che sia.
Perdi una persona a cui sei stato molto legato, e dopo dici: "Quella persona contava molto per me!". Se uno fa l'esame della propria vita e dice: "Chi ha contato nella mia vita?", cos'è che fa? Sottopone a una variazione rispetto alla stabilità, in cui non ci poniamo grossi problemi se una persona è più o meno importante per noi, la torce e a un certo punto, vedendo chi supera la prova, scopre chi è più importante di chi. Naturalmente nelle nostre vite possiamo variare la metrica. Può darsi che per me a quindici anni, che per me a cinquant'anni o che per me a settant'anni, ci saranno riattribuzioni di peso e di importanza; così come ci sono persone particolarmente coerenti, non sempre è una virtù, che continuano ad avere la stessa metrica per lunghi tratti di vita.

Facciamo teorie quando qualcosa non funziona, quando abbiamo qualche grattacapo (Platone, Aristotele). Che cosa vuol dire che qualcosa non funziona? Non banalmente che vi è incertezza (quella c'è sempre), ma che si altera la partizione tra questa e l’ammontare di certezze di cui disponiamo in diverse arene, in diversi ambiti.
Quando ad esempio è importante saperci chiamare in certi modi e contare su una riserva di riconoscimenti etero e auto stabili in certi modi? Quando c'è minaccia circa l’dentità.

C’è uno spazio in cui la questione non è "che cosa avviene", ma "che cosa per noi vale", lo spazio quindi che noi tracciamo quando non siamo solo interessati a descrivere stati del mondo, ma a commentare stati del mondo.
I valori entrano nel mondo quando noi siamo impegnati a commentarlo.
Parlando di un’auto scassata all’ingresso del museo di Stoccolma, Dalisi ha affermato di avere avuto un’emozione. Ha detto più o meno precisamente "Ho visto un’auto su di una colonna e ciò mi ha dato un’emozione ". Beh, quando dice questo, Dalisi non sta dicendo: "Lì c'è una macchina lunga x, con cilindri y, di colore z, e così via ". Sta commentando l'esservi quell'oggetto nel mondo. Questa è l'esperienza artistica. Un poème dit le monde diceva Baudelaire. Così fa un quadro in forme differenti, e così fa l'oggetto.

Nascendo siamo immersi in un sacco di cose che non abbiamo contribuito a fare, tra le quali innanzitutto il linguaggio.
Noi non scegliamo di nascere, e una volta nati ci troviamo (questo è il tema importantissimo della contingenza) in un mondo che può piacerci o meno, ma non abbiamo contribuito a fare. A questo punto mi sono detto che dovevo lavorare al linguaggio.
Mi sono allora chiesto: "Ma perché pensare che l'idea di una comunicazione fallita sia un male?".
La mia risposta è che è un male perché il fallimento annuncia scomuniche, esclusioni, e quindi solitudini involontarie.

Noi siamo dei tipi maledettamente conservatori, per noi l'incertezza e l'instabilità sono un male, per cui tendiamo a ridurre l'incertezza e a preferire più stabilità piuttosto che meno (tutte cose insomma che generano e corroborano l'identità).
Siamo dei tipi che mirano a ridurre l'incertezza. Ed è razionale e ragionevole per ciascuno di noi ridurre l'incertezza quando essa è minacciosa. (Pensate alla formazione delle agenzie di tutela o di definizione di interessi collettivi, come quelli sindacali o unioniste, alla storia dei movimenti di associazione non politica degli interessi dei salariati in Europa).

da Salvatore Veca, Dell'Incertezza, Feltrinelli

Rapporto Censis

Sicurezza e Cittadinanza Comunicato Stampa

Sicurezza e Cittadinanza Rapporto

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venerdì 1 febbraio 2008

Modernità

La sensazione di essere risucchiati da un vortice in cui tutte le realtà e tutti i valori sono annullati, esplosi, decomposti e ricombinati; un’incertezza di fondo riguardo a cosa sia fondamentale, a cosa sia prezioso, persino a cosa sia reale.

da Marshall Berman, L’esperienza della modernità, Il Mulino, 1999, pag. 154.